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Gran parte della critica ha definito i romanzi di Elsa Morante un prodotto realistico e oggettivamente pessimistico tale da non offrire al lettore possibilità di salvezza. In realtà, andando oltre il livello superficiale di lettura dei testi morantiani, si può scorgere un “sistema” perfetto pensato per fornire al lettore, come anche allo stesso autore nell’atto creativo, un’alternativa positiva soltanto mediante il valore catartico e, quindi, compensatorio, della tragedia e del dramma umano. Questo livello latente di lettura e interpretazione, partendo proprio dalle considerazioni di Sigmund Freud sino a toccare il concetto di “scrittura come riparazione” di Stefano Ferrari, può risultare utile e analiticamente fecondo soprattutto se si parte dalla constatazione che la stessa Elsa Morante non fu immune da quella cosiddetta “cultura dell’inconscio.” Analizzando le memorie del procidano come “odissea alla rovescia” del protagonista per il superamento di un complesso edipico irrisolto, il lettore de L’isola di Arturo, “prima persona responsabile,” potrà, dunque, nel caos totale di morte e distruzione, mediante le figure antieroiche dei personaggi di carta e secondo lettura fornita da Melanie Klein, trovare una via di fuga soddisfacente al male universale, intendendo, così, l’esperienza del lutto e della separazione come necessaria premessa a una riformulazione tardiva, ma urgente, di una soggettività frammentata. Quella “fisiologia compensatoria” che ha le sue radici nell’esperienza terapeutica della letteratura e della testimonianza del sé (operazione memoriale analoga alla scrittura di Proust) caratterizza l’“opera di pensiero” di Elsa Morante.