Abstracts
Riassunto
Oggi l’inquietante interrogativo in Italia non è semplicemente se Matteo Salvini, vice premier, ministro degli Interni e segretario della Lega, vincerà le prossime elezioni europee. Ma dove porterà la svolta illiberale, xenofoba e identitaria che ha impresso al paese. Una svolta nella quale si riconoscono anche tutte le formazioni neofasciste che lo appoggiano apertamente. Ecco come l’Italia si sta avviando verso la “Salvinicrazia”.
Parole chiave:
- Salvini,
- fascismo,
- Lega,
- Movimento 5 Stelle,
- Di Maio,
- autoritarismo,
- sovranismo,
- destra,
- nazionalismo
Résumé
Aujourd’hui en Italie, l’inquiétante question n’est pas tout simplement de savoir si Matteo Salvini, vice premier ministre, ministre de l’intérieur et secrétaire de la Lega, gagnera ou non les prochaines éléctions européennes, mais de savoir où menèra le tournant illibéral, xénophobe et identitaire qu’il a imposé au pays. Un tournat dans lequel se reconnaissent toutes les formations néo-fascistes qui le soutiennent ouvertement. Voilà comment l’Italie avance vers la « Salvinicratie »
Mots-clés :
- Salvini,
- fascisme,
- Lega,
- Mouvement 5 Étoiles,
- Di Maio,
- autoritarisme,
- sovranisme,
- droite,
- nationalisme
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Il crollo del M5S e l’ascesa della Lega
“È tutto un gran tornare indietro. Torna indietro, torna indietro e arriveremo finalmente al 1922, che è quello a cui segretamente tanti politici aspirano. Mi creda, ho 93 anni e ho conosciuto i gerarchi fascisti. Salvini sarebbe stato un meraviglioso federale di Mussolini”[1], avverte il grande scrittore italiano Andrea Camilleri.
I sondaggi elettorali quotano la Lega ben oltre il 32% e accreditano Salvini come il leader politico più gradito agli italiani. Un successo alle elezioni del 26 maggio sembra scontato. Il suo obiettivo è la leadership di un forte fronte sovranista europeo capace, se non di ribaltare l’asse Ppe-Pse, di condizionarlo pesantemente riorientando le politiche dell’Ue. Un passaggio cruciale per imporre, poi, a Roma il governo esclusivo di una destra neonazionalista sotto le insegne della Lega.
Mentre l’Italia è investita da una nuova recessione economica, l’attuale alleanza di governo tra la Lega e il Movimento 5 Stelle dell’altro vice premier Luigi Di Maio è sempre più instabile. Le posizioni contrapposte sulla Tav, la linea ferroviaria veloce Torino-Lione, hanno messo in luce una frattura insanabile, che il compromesso di rinviare di sei mesi la decisione definitiva non riesce a mascherare. Un rinvio utile solo a scongiurare una crisi di governo prima delle elezioni europee, che svelerebbe la frattura ormai ingestibile tra i due alleati al potere. Per Salvini è un’opera irrinunciabile, reclamata a gran voce dalle imprese del Nord Italia, il suo più importante bacino elettorale; per i 5 Stelle, il No Tav è, invece, l’ultimo inviolabile tabù dopo le tante concessioni fatte alla Lega. Ma sulla Tav si sta giocando anche la credibilità dell’Italia davanti agli investitori esteri di cui ha disperatamente bisogno. Chi è così avventato da investire in un paese che cancella i suoi impegni sottoscritti, addirittura, in un trattato internazionale, come quello con la Francia per il nuovo collegamento ferroviario veloce? È la domanda che allarma il mondo economico della Penisola.
Il M5S, che si è sempre battuto contro l’immunità parlamentare, ha invece salvato Salvini da un processo con l’accusa di sequestro di persona e arresto illegale per aver impedito, in qualità di ministro degli Interni, a 177 migranti soccorsi nel Mediterraneo da una nave della Guardia costiera di sbarcare in Sicilia. Bloccandoli a bordo per dieci giorni in precarie condizioni psicofisiche. Ha, inoltre, approvato la nuova legge sulla legittima difesa voluta fortemente dalla Lega, ma avversata dalla stessa base dei 5S e dalla sinistra che la ritengono una “licenza d’uccidere”, poiché la difesa è considerata sempre legittima in casa propria e, quindi, non punibile. Cedimenti che hanno fatto perdere vistosamente consensi al Movimento fondato dal comico Beppe Grillo, come si è visto nelle recenti elezioni regionali in Abbruzzo, Sardegna e Basilicata. Mentre la Lega continua ad avanzare. A risollevare le sorti elettorali del M5S non sembra possano bastare il reddito di cittadinanza che verrà erogato dalla fine di aprile (780 euro per i single e 1330 per una famiglia con due minorenni), né la nuova legge sul pensionamento anticipato. Il Movimento ha perso la sua spinta propulsiva nel nome del Grande Cambiamento. Oggi è soffocato dalle sue stesse contraddizioni tra un’anima populista di sinistra che si trova a governare con una forza, la Lega, espressione della destra più reazionaria; è penalizzato da un antimodernismo - frutto di un ambientalismo ideologizzato - che si oppone alla realizzazione di grandi infrastrutture nei trasporti, scontrandosi con le necessità di un paese che invece ne ha bisogno per crescere economicamente; è indebolito da uno statalismo assistenzialista dai tratti forsennati il cui prezzo è pagato dai cittadini.
Come notava Ezio Mauro, ex direttore del quotidiano Repubblica, è il doppio populismo dell’alleanza Lega-M5S - l’ultimo fenomeno sfornato da quel laboratorio di anomalie politiche che è l’Italia - che va in corto circuito. “Da una parte la paranoia securitaria, che tra ruspe e pistole affonda il Paese nel buio permanente di un’emergenza continua, tenendolo nella paura invece di emanciparlo, nel nome del sovranismo - scrive. Dall’altro la fissazione purificatrice di una sorta di autarchia sociale riduttivista, che diffida della crescita, sospetta di ogni progettualità ambiziosa, denuncia qualsiasi”grande opera" come lo strumento di un moderno demonio, smontando l’Italia per poi proteggerla a pezzi con l’assistenzialismo chiamato a sostituire la crescita: in nome del popolo, naturalmente”[2]. Anche l’accordo con la Cina sulla nuova “Via della seta” ha diviso i due alleati. Con Salvini che, voltando le spalle all’amico Putin, ha rinnovato la sua fedeltà al Patto Atlantico. Ma tra Di Maio e il leader leghista è scontro anche sulla flat tax, la tassa piatta, il Sacro Graal del vecchio centro destra. Il neopopulismo come superamento della destra e della sinistra teorizzato da Alain De Benoist (2017), di cui in Italia il governo congiunto di Lega e M5S doveva essere la sintesi perfetta - il modello per una possibile alleanza tra Front National e Fronte de gauche auspicato per la Francia dall’economista Jacques Sapir - si è rivelato inadeguato a rappresentare interessi differenti e contrapposti.
Salvini piglia tutto
Ma il leader della Lega, vero campione di quel camaleontismo politico che distingue i populisti di razza, ora può attendere pazientemente l’implosione del M5S per raccoglierne i cocci. Attirando da un lato nella sua orbita quella componente di destra, giustizialista e securitaria, che non ha difficoltà ad indentificarsi con Salvini, l’Uomo forte del governo, e dall’altro rispondendo alle istanze sociali della sinistra a 5 Stelle, con la nazionalizzazione dei diritti sociali: “Prima gli italiani” e riservando ad essi le tutele del Welfare.
Un processo di logoramento analogo lo sta vivendo Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi alleato della Lega nei governi locali: Comuni, Province e Regioni. Il salvinismo ha già cannibalizzato il berlusconismo. L’incredibile avanzata elettorale, nel marzo 2018, di Salvini nel Sud Italia, terra prima ostile al leghismo, si spiega, almeno in parte, con la fuga verso la Lega di molti Grandi elettori (i famosi collettori di voti) di Forza Italia, che, per di più, pare aver perso la rappresentanza politica dei ceti moderati e produttivi del Nord. Anche Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, la formazione erede del postfascismo italiano, di quella Fiamma tricolore del Movimento sociale italiano che in Francia ispirò Jean-Marie Le Pen, non riuscirà alla lunga a sottrarsi alla forza d’attrazione della Lega, avendo un comune sostrato ideologico: Ordine, Dio, Patria e Famiglia. Intanto, movimenti dichiaratamente fascisti, come CasaPound, Forza Nuova e Avanguardia nazionale, ormai legittimati sulla scena politica, vedono in Matteo Salvini il leader che ha fatto risorgere e sdoganato l’ ultra destra italiana.
Il pugno di ferro di Salvini contro i migranti è stato un potente catalizzatore di consensi per la Lega. Perché l’immigrazione tocca i nervi più sensibili di una società impaurita dalla globalizzazione e dalla perdita delle vecchie certezze. Un corpo sociale infettato dall’estenuante campagna antistranieri del ministro degli Interni che semina paure e allarmi: sulla sicurezza (minacciata dai delinquenti stranieri che spacciano droga e rubano); sul timore di perdere il lavoro (insidiato dall’arrivo di una manodopera a basso costo); sull’identità culturale e religiosa (pressata da altre culture e da altre fedi); sull’appartenenza territoriale (svalorizzata perché “non ci si sente più padroni in casa propria”), sull’accoglienza dei profughi (che sottrae risorse pubbliche da destinare invece alla popolazione autoctona più o meno bisognosa). Il leader della Lega ha saputo incarnare quel populismo che, ricorda il politologo Marco Tarchi (2015), promette di difendere sia il livello di vita che lo stile di vita dei cittadini. Dunque, sia i redditi che i costumi e le tradizioni nazionali.
Se questo è il quadro evolutivo della nuova destra italiana, a sinistra non si scorgono ancora segnali positivi nel Pd. Il Partito democratico, logorato dalle faide interne, ha impiegato un anno per scegliere il nuovo segretario Nicola Zingaretti che ha davanti a sé una sfida immane: ricompattare il Pd, recuperare il voto giovanile e quello dei ceti popolari, dare una risposta democratica alle grandi questioni dell’immigrazione, della sicurezza e dei bisogni sociali, creare uno schieramento di sinistra in grado di contrastare la Lega nelle elezioni europee.
Verso la “Salvinicrazia”
Attorno a Salvini che, per anni ha alimentato l’incubo dell’invasione dei migranti e della “Grande sostituzione”, teorizzata da Renaud Camus, si va compattando un blocco sociale in cui confluiscono vecchio nazionalismo e nuovo sovranismo, xenofobia e razzismo, autoritarismo e intolleranza religiosa, tradizionalismo e ordine securitario, esaltazione identitaria e conservatorismo reazionario, isolazionismo e protezionismo. Un blocco sociale che sta diventando un partito di massa in cui si riconosce politicamente quell’Italia incattivita, l’Italia del rancore in preda al “sovranismo psichico” descritta nell’ultimo rapporto Censis, il principale istituto di ricerca socio-economica italiano. “Una sorta di sovranismo psichico prima ancora che politico che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio”[3]. Questa nazione rancorosa e incattivita, secondo i dati Censis, ha trovato il capro espiatorio e il bersaglio del suo livore soprattutto nei migranti: il 63% della popolazione giudica negativamente l’immigrazione dagli Stati extra Ue, con picchi che vanno dal 71% al 78% tra gli italiani con più di 55 anni e i disoccupati; il 58% è convinto che gli immigrati rubino il lavoro ai residenti; il 63% che approfittino del welfare, il 75% sostiene che aumentino il rischio criminalità; il 59%, infine, ritiene impossibile raggiungere una buona integrazione tra etnie e culture differenti.
Con un simile sostrato sociale è inevitabile l’aumento delle violenze razziste: dai 359 episodi di violenza registrati nel 2015 si è passati ai 557 del 2017 e agli oltre mille dell’anno scorso. Nel Nord, a Macerata, e nel Sud, a Vibo Valentia, si è arrivati persino a sparare sui migranti di colore nel nome di un istintivo suprematismo bianco. Del resto, quando la politica dominante e la sua narrazione dell’emergenza profughi riducono gli uomini a semplici “cose” da “rifiutare”, “respingere” e “pulire via”, è abbastanza facile che contro queste “cose” “deumanizzate” si punti anche la canna di un fucile. In questo clima è inevitabile che pregiudizi razziali, pulsioni e vocazioni fasciste prima indicibili e inconfessabili, siano diventate moneta corrente sulla scena pubblica. Che, addirittura, si ostentino.
Nell’ordinarietà di una pericolosa deriva politica, le cronache registrano casi allarmanti: l’ insegnante che in una scuola elementare umilia un bambino di colore additandolo ai compagni: “guardate quanto è brutto” e che definisce “scimmia” la sorellina; l’impavida arroganza di un sindaco che espone nel suo ufficio, accanto al crocefisso, il quadretto col giuramento del battaglione italiano delle Waffen SS, responsabile di una strage costata la vita a 560 persone; la funzionaria pubblica che esibisce la svastica tatuata su una una caviglia; i consiglieri comunali di CasaPound che indossano felpe inneggianti al nazismo. E non si tratta di fatti isolati. È quel rancore sociale che il sociologo Aldo Bonomi (2008) aveva analizzato e descritto (quando la Lega era ancora un movimento politico radicato soltanto nel Nord) come il “malessere” del settentrione d’ Italia - stretto tra i flussi globali del capitalismo delle reti e le identità sociali e territoriali polverizzate dal postfordismo -, oggi si è esteso in forme ancora più virulente a tutto il paese.
Una marea nera che monta sui social media come ha segnalato nel giugno dello scorso anno la “Mappa dell’intolleranza” elaborata da Vox - Osservatorio italiano sui diritti (Vox s.d.). Mentre sono nettamente diminuiti i tweet contro gli omosessuali, aumentano quelli contro i migranti: dai 38mila del 2016 si è saliti a 73.390 nel 2017. E fatto ancora più preoccupante con punte ancora più elevate proprio quando le drammatiche cronache sulle tragedie dei profughi avrebbero dovuto indurre a sentimenti, se non di solidarietà, quanto meno di compassione, oppure rassicurare con i numeri veri degli sbarchi in Italia che andavano diminuendo. La percentuale dei tweet contro i migranti è, infatti, passata dal 32,45% del 2017 al 36,93% del 2018. In pratica, sottolineava il quotidiano Repubblica commentando questi dati, 1 italiano su 3 twitta il suo odio contro migranti, ebrei e musulmani.
Un’ Italia fascista e razzista, dunque? No, c’è ancora un paese che reagisce come dimostrano le 250mila persone scese in piazza a Milano contro il razzismo, le mille testimonianze di solidarietà dei Comuni e della popolazione verso i profughi, la reazione decisa di gran parte della stampa nazionale. C’è, invece, una grande arretramento civile e culturale, “un’ insofferenza per la democrazia”, come quella descritta da Arjun Appadurai (2017), che erode i valori della democrazia liberale e della solidarietà. Aprendo la strada al populismo autoritario. Ci sono indubbiamente le mille tossine del razzismo e del fascismo che si vanno diffondendo nel corpo di una società stanca e sfiduciata. Avvelenando un paese che è ormai scivolato nella recessione economica. Crolla il fatturato dell’industria, l’occupazione ristagna, le previsioni sulla crescita sono corrette di mese in mese al ribasso, il debito pubblico lo scorso gennaio ha toccato i 2,358 miliardi di euro, ossia il 132% del Pil, mentre lo spread nei primi tre mesi dell’anno è oscillato tra 230 e 260 punti.
L’Italia pare avviata verso “la decrescita infelice”, nonostante il fiume di denaro arrivato negli ultimi quattro anni dalla Banca centrale europea presieduta Mario Draghi. Dal marzo 2015, quando è stata avviata la strategia del “Quantitative Easing”, sino al dicembre scorso, la Bce ha acquistato 273 miliardi di Btp (Buoni del Tesoro poliennali), vale a dire circa quattro miliardi di titoli di Stato italiani ogni mese. Ciò ha permesso agli ultimi tre governi di frenare da un lato lo spread con i i titoli della Germania e dall’altro di contenere il costo degli interessi sull’enorme debito pubblico. L’Italia, in poche parole, è stato il Paese che più ha beneficiato della manovra espansiva della Bce. Ma Salvini e Di Maio non hanno risparmiato pesanti offese a Draghi, l’italiano assurto ai vertici della Bce grazie ad un accordo tra Roma e Parigi. Se non ci fossero stati gli insulti scervellati dei due vice premier al presidente Emmanuel Macron, la Francia poteva essere il migliore alleato per contrastare il rigorismo finanziario della Germania e dare una nuova rotta all’Ue.
Inaspriti da un’economia in crisi, il prossimo maggio gli italiani andranno alle urne non per votare sui valori dell’Unione europea, ma per sfogare il loro risentimento. Bruxelles sarà il capro espiatorio di questa crisi.
Capitan Tweet
Ma come è potuto succedere che Salvini, un politico che nei cori leghisti cantava “senti che puzza, scappano anche i cani, sono arrivati i napoletani”, sia riuscito a trasformare un movimento secessionista, con base solo nel Nord Italia, in un partito nazionale che oggi riscuote grandi consensi anche in quel Sud da lui sempre oltraggiato? Come è possibile che un politico il quale, solo un anno prima delle elezioni del marzo 2018, invitava a “Radere al suolo i campi rom! Asfaltare e ripulire”, che in un comizio invocava contro i migranti una “pulizia di massa, via per via, quartiere per quartiere e con le maniere forti se serve”, abbia trionfato alle elezioni? Diventando, inoltre, il leader più apprezzato in Italia, con un indice di gradimento del 52%. È stato possibile perché Salvini, il Capitano come lo chiama il popolo leghista, ha saputo rovesciare al momento giusto non solo il tavolo della vecchia politica, ma anche quello della comunicazione politica.
È stato possibile, spiega il giornalista Antonello Caporale (2018) nel suo libro “Il ministro della Paura”, in cui ripercorre tutta la comunicazione pubblica del leader leghista, perché “Salvini è divenuto il potabilizzatore della nostra coscienza sporca, il depuratore dei sentimenti cattivi, legittimando la pratica dell’accusa estrema, liberandoci dal dubbio che essa non lo sia mai troppo, spiegandoci invece che il giusto è proprio l’inconfessabile, quel che potrebbe ingiustamente farci apparire egoisti, troppo egoisti, e indicati persino come razzisti”. Ci è riuscito grazie alle sue abili doti di camaleonte del populismo che si adatta e cavalca ogni situazione. Alla sua capacità di fiutare il disagio sociale che cova nelle periferie abbandonate a sé stesse, il risentimento di ceti popolari senza più referenti di classe e di partito e la rabbia del Meridione piagato dalla mafia, dall’affarismo politico e da un tasso di disoccupazione giovanile all’11,4%. Il capo della Lega si cala nella pancia del popolo, per solleticarne ansie e timori con un uso spregiudicato dei social media.
Se Berlusconi è stato l’inventore del populismo televisivo, Salvini è, invece, l’alfiere di quel nuovo fenomeno che il sociologo Alessandro Dal Lago ha definito “populismo digitale” (Lago 2017). L’ uso compulsivo di tutti i social media gli ha permesso di aggirare i tradizionali mezzi di comunicazione di massa e di parlare direttamente al popolo secondo i codici del “marketing emozionale”. D’incidere, e quindi, orientare i processi di formazione dell’opinione pubblica, in “un’epoca in cui le emozioni si sostituiscono alle idee” come sottolinea il linguista Giuseppe Antonelli nel suo saggio “Volgare Eloquenza”. Salvini, oltre a ricorrere abilmente ai tradizionali artifici della retorica populista analizzati da Lorella Cedroni (2014), ne amplifica l’impatto usando il suo stesso corpo come messaggio politico e i social media come propagatori virali di un suo racconto, manipolato, della realtà.
Anche il suo abbigliamento è comunicazione politica. Agli esordi usava le sue famose felpe col nome della città o della regione dove andava a ribadire la sua totale adesione all’identità locale, poi ecco le magliette con gli slogan contro l’euro e Bruxelles. Infine il passaggio, da ministro degli Interni, alle giacche a vento della polizia e dei carabinieri, indossate ogni qual volta bisognava rilanciare il suo messaggio securitario agli italiani. “Il mezzo è il messaggio” diceva McLuhan, così un capo d’abbigliamento veicola un contenuto politico mirato, generando un processo d’identificazione con chi lo indossa, secondo la logica del “mirroring, cioè l’effetto rispecchiamento. Il suo stesso corpo trasformato in macchina di narrazione politica. Il camaleonte Salvini parla, si atteggia e si camuffa a seconda dell’occasione o del pubblico che ha davanti: promette di usare le ruspe contro i rom, ma bacia il rosario durante i comizi.
A pari del presidente americano Donald Trump, fa un uso ossessivo di Facebook, Twitter e Instagram. C’è un Salvini dai mille ruoli e dai mille volti sulla rete: come ministro dell’Interno e vice premier, segretario e guida della Lega, come padre di famiglia o in versione tempo libero. Un incessante riconcorrersi tra il bullismo digitale di chi vuole mostrare i muscoli – quando inveisce contro gli stranieri e le Ong che soccorrono in mare i migranti, insulta Macron o dà dell’ubriacone al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker – e le sdolcinature nazionalpopolari con i post che lo ritraggono mentre mangia spaghetti e lecca la Nutella, per dare di sé l’immagine di un italiano come tanti. Ogni occasione è buona per comunicare qualcosa al popolo del web. Per inviare messaggi polivalenti, finalizzati ad accreditare nell’opinione pubblica il ruolo del ministro deciso, del leader intransigente o del normale padre di famiglia. Per veicolare annunci politici, sondarne gli effetti ed, eventualmente, correggere il tiro o accentuarli.
Non rifugge la polemica via social. Tutt’altro. Proprio la natura dei social gli permette di combattere chi lo attacca non argomentando, ma con secche battute ironiche che chiudono ogni discorso e lasciano a lui l’ultima parola. Aumentando i consensi. Sulla sua pagina facebook ha raggiunto i 3,5 milioni di like, contro i 2,4 di Macron.
Questa strategia comunicativa gli ha permesso di anticipare temi e problemi politici importanti, bruciando sul tempo i suoi alleati di governo. Ha dettato, perciò, l’agenda governativa e occupato la scena mediatica. Tweet e post di Salvini sono largamente ripresi e diffusi da tutti i media, amplificandone così la viralità e l’impatto sulla pubblica opinione. Tant’è che lo scrittore Roberto Saviano ha esortato i giornalisti a staccargli la spina. Da cinque anni conduce, via social, un’articolata campagna per instillare paure e insicurezza tra i cittadini, per alimentare l’ostilità contro gli immigrati, gli islamici, i rom, i burocrati di Bruxelles, le élite cosmopolite, le caste della politica locale e nazionale. Per diffondere lo sprezzo e la sfiducia verso le istituzioni e le lente procedure della democrazia che bloccherebbero le decisioni e le soluzioni giuste. Una tattica che gli ha permesso di vincere trionfalmente le elezioni nel 2018, ma che è anche un’ottima premessa per innescare alternative autoritarie.
Persino da ministro e vice premier, Salvini adopera sui social un linguaggio aggressivo. Spodesta le parole dal loro significato abituale, rovescia espressioni comuni e modi di dire in senso offensivo o come una minaccia, secondo le regole di quella “perfomatività” in cui “dire è fare”. Ogni suo tweet, ogni suo post non è casuale: c’è assertività, provocazione e prevenzione o, meglio, quel “framing preventivo”che, secondo il linguista George Lakoff, serve per dare un’ interpretazione dei fatti prima che lo facciano altri.
Il suo linguaggio è divisivo e finalizzato costantemente, come del resto tutta la retorica populista, a produrre la rappresentazione di un nemico: i profughi, le Ong, l’euro, la Commissione europea, gli zingari, la casta. Contro gli sbarchi dei profughi usa il gergo militare: “difendere le frontiere” (come se ci fosse un nemico ai confini), “fermare l’invasione” (come se i migranti fossero un esercito invasore), “respingere”, “chiudere i porti”. Qualche settimana fa è arrivato persino a minacciare di chiudere “le acque territoriali” dell’Italia. Attorno ai migranti che hanno già messo piede in Italia fa, invece, terra bruciata: smantella centri di accoglienza, distrugge percorsi positivi d’integrazione, sgombra campi profughi lasciando migliaia di disperati allo sbando. La sua linea anti migranti ha avuto facile gioco sull’avventato buonismo di una sinistra che ha lasciato buona parte dell’accoglienza dei profughi, con costi pari a quasi 5 miliardi di euro, in mano alle organizzazioni criminali e al male affare politico.
Su Repubblica il giornalista Marco Belpoliti ha scritto: “Le sue sono frasi da stadio. Salvini parla la lingua dell’aggressione perché è cresciuto con questa lingua, quella degli ultras del calcio dove si è formato culturalmente. Una lingua che purtroppo oggi tutti intendono, se non proprio parlano, grazie soprattutto ai social”[4]. Ma i social gli offrono anche un altro importante vantaggio tattico, perché gli permettono uno sdoppiamento dei ruoli: di capopopolo e di ministro. Da capopopolo aizza le masse con tweet e post, svestendosi anche fisicamente dalla funzione istituzionale di ministro e vice premier - per la quale sarebbe obbligato ad un certo decoro verbale -, ma da capopopolo conserva comunque l’autorevolezza e la credibilità del suo ruolo ministeriale che viene, perciò, esaltato agli occhi della gente come quello di un governante diverso dagli altri.
Da anni Matteo Salvini è in campagna elettorale permanente, giorno e notte, pause pranzo comprese. I giornalisti Milena Gabanelli e Gian Antonio Stella[5] hanno calcolato che dal giorno della sua nomina come ministro degli Interni (1° giugno 2018) al febbraio 2019 è stato presente al Viminale, la sede del suo ministero, in media meno di dieci giorni al mese. La sua presenza al senato durante le votazioni in aula è di appena 58 sedute su 3286, ossia l’1,73%. Dov’è Salvini? È in giro per l’Italia, per apparire dappertutto laddove c’è un ritorno per la sua immagine politica.
La vocazione autoritaria del sovranismo salvinista
L’autoritarismo è il tratto essenziale del populismo. Cambiano soltanto, di paese in paese, di epoca in epoca, l’interpretazione, le modalità e la comunicazione di un medesimo orientamento autoritario. Il totalitarismo fascista come quello comunista, ricorda lo studioso Loris Zanatta (2013), sono nati da una loro originaria vocazione populista e si sono affermati in paesi la cui tenuta istituzionale, politica e culturale non ha saputo frenarli e depotenziarli. È questo il rischio che sta correndo l’Italia.
Certo, oggi a Roma non c’è un regime fascista. Esiste sempre, per quanto debole, un’opposizione politica e civile, ci sono un sistema di tutele costituzionali ancora integro e una stampa libera, sebbene apertamente osteggiata dal governo come ha sottolineato un rapporto del Consiglio d’Europa. Ma c’è indubbiamente un’involuzione autoritaria. Favorita anche da un quadro internazionale mutato profondamente: con l’emergere delle nuove democrazie illiberali che dominano molti paesi, dalla Russia di Putin alla Turchia di Erdogan, dall’Ungheria di Orban al Brasile di Bolsonaro e all’ America di Trump; con la rottura di importanti accordi internazionali, come quelli di Parigi sul clima, il progressivo rifiuto della concertazione multilaterale e l’abbandono di importanti organizzazioni internazionali; con il ritorno dell’isolazionismo e del protezionismo (e conseguenti guerre commerciali); con la drammatica negazione dei diritti umani, il cui valore universale è ferocemente contrastato dai movimenti neopopulisti e sovranisti; con un’ idea di Stato nazione, e quindi di nazionalismo, che si eleva all’ennesima potenza degli Stati-civiltà che, secondo la definizione di Gideon Rachman, pretendono di rappresentare non solo un determinato territorio storico-geografico, una lingua o un gruppo etnico, ma una distinta civiltà. “La nozione di uno Stato-civiltà - precisa - ha delle implicazioni illiberali. I tentativi di stabilire dei diritti dell’uomo universali o delle pratiche democratiche comuni diventano inutili, perché ogni civiltà ha bisogno di istituzioni politiche che riflettono la sua unicità. Non tutti i cittadini rientrano nello Stato-civiltà. Le minoranze e i migranti vengono esclusi perché non fanno parte della civiltà”[6]. È in questa nozione che affonda le sue radici il suprematismo bianco con la sua scia di sangue dalla Norvegia agli Usa, dall’Italia alla Nuova Zelanda. È questo anche il retroterra ideologico su cui si vuole costruire l’Internazionale sovranista.
Il populismo con la sua concezione del popolo come unità organica e indifferenziata ha di per sé stesso una vocazione illiberale e autoritaria, perché non tiene conto delle differenze culturali, politiche e valoriali di una nazione. È decisamente ostile al pluralismo politico e istituzionale quale antidoto alla tirannia della maggioranza. Il popolo che acclama ed elegge i leader populisti diventa per quest’ultimi tutto il popolo, il loro governo rappresenta, quindi la volontà di tutto il popolo. Nella sineddoche populista la parte rappresenta il tutto. Chi non è eletto dal popolo non è legittimato a criticare. Una semplificazione brutale di questa concezione la si è vista ripetutamente in Italia: “Prima di criticare fatevi eleggere dal popolo”, è stata questa la risposta di Salvini e Di Maio per tappare la bocca a magistrati, alti funzionari dello Stato, giornalisti e intellettuali che li contestavano. Tanto più si parla di popolo e nel nome del popolo, tanto meno si parla di diritti, di libertà personali e del loro legittimo esercizio.
Quando si dibatte sul ritorno del fascismo in Italia, non bisogna commettere il grossolano errore, di pensare ad un fascismo in camicia nera. “Ogni tempo ha il suo fascismo” avvertiva lo scrittore Primo Levi[7], l’autore di Se questo è un uomo, tragica testimonianza dell’Olocausto. Il fascismo oggi può avere il colore opaco di un governo illiberale, dell’autoritarismo strisciante, del sabotaggio della democrazia rappresentativa, del non rispetto delle procedure democratiche e delle competenze istituzionali, del ricatto alla stampa libera e della manomissione del delicato meccanismo che regola la separazione dei tre poteri fondamentali dello Stato: esecutivo, legislativo, giudiziario. Ebbene, con il governo Lega-M5S tutto questo è già accaduto in un paese a cui il predominio di Salvini imprimerà un’ulteriore svolta a destra.
I segnali di questa svolta sono allarmanti: le continue critiche a corpi intermedi dello Stato; l’occupazione della Rai, l’azienda pubblica radiotelevisiva, con dirigenti e giornalisti di stretta osservanza governativa; gli attacchi alla stampa ritenuta ostile e la minaccia ai giornali di non concedere più la pubblicità istituzionale (essenziale per la loro sopravvivenza); il tentativo di scardinare l’equilibrio su cui si fonda l’autonomia delle autorità indipendenti, come la Banca d’Italia o la Consob chiamata a vigilare sui mercati finanziari; la smania di forzare il sistema di pesi e contrappesi istituzionali, il check and balance, elemento fondamentale della democrazia. Ma ci sono anche lo svilimento e “lo svuotamento del parlamento”, denunciati da Sabino Cassese[8], giudice merito della Corte Costituzionale, e un ministro degli Interni, Matteo Salvini, che scavalcando le sue competenze, si comporta spesso da ministro degli Esteri, della Giustizia, delle Infrastrutture, della Difesa e dell’Economia. Una costante invasione di campo per ribadire chi comanda davvero nel governo e in Italia.
Ora in vista delle elezioni europee il segretario della Lega ha cambiato look e linguaggio, ha recuperato il cliché di una destra in “doppiopetto” per rassicurare i ceti moderati e accreditare la sua statura di guida del sovranismo europeo. Ma la sua destra e la sua idea di sovranità popolare non hanno niente a che vedere col vecchio conservatorismo occidentale.
Appendices
Notes
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[1]
Andrea Camilleri, intervista a Radio Radicale, 4.3.2019.
-
[2]
Ezio Mauro, Repubblica, 8.3.2019.
-
[3]
Rapporto Censis 2018.
-
[4]
Marco Belpoliti, Repubblica, 28.6.2018.
-
[5]
Milena Gabanelli e Gian Antonio Stella, Corriere della sera, 12.3.2019.
-
[6]
Gideon Rachman, Financial Times, 4.3.2019.
-
[7]
Primo Levi, “Un passato che credevamo non dovesse più tornare”, Corriere della sera, 8.5.1974.
-
[8]
Sabino Cassese, Corriere della sera, 2.3.2019.
Bibliografia
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